1960-61 Le esperienze artistiche

1960-61 Le esperienze artistiche

Autunno 1961. Terminato l’ultimo anno dell’Istituto d’Arte di Volterra, le mie avventure artistiche si infittiscono e culminano nella partecipazione alla mostra-concorso per giovani artisti volterrani organizzata dalla locale Federazione Giovanile Comunista. Erano occasioni importanti che davano spazio a noi ragazzi. Mi sarebbe piaciuto che alle successive manifestazioni partecipassero anche le organizzazioni giovanili degli altri partiti; lo proposi alla FGCI ma senza successo. Della commissione facevano parte, tra gli altri, il mio insegnante di disegno Mino Trafeli e lo scultore Mauro Staccioli, che proprio in quegli anni cominciava ad affermarsi.

Il Cardinale, l’opera che presentai al concorso, ottenne il primo premio. Ricordo con piacere il commento entusiasta di Mauro, che apprezzò nel dipinto una grande personalità, una tecnica espressiva condotta con tocco rapido, istintuale e quindi di getto, originale e anti-accademica. L’avevo realizzato usando stracci, pennelli e colori autarchici ottenuti con ossidi mescolati con olio. Avevo lasciato la superficie della tela volutamente incompleta in certe parti, cosa anch’essa molto apprezzata dallo Staccioli.
Il tema della figura l’avevo affrontato negli ultimi anni di scuola. Ricordo che Edmondo Savelli, l’insegnante di disegno dal vero, ci aveva affidato il compito di trattare una maternità. La figura avanza con determinazione, poderosa sulle gambe michelangiolesche, decisamente scultoree. Il bambino è stretto al corpo della madre, della quale si legge con chiarezza il volto che si protende in avanti fino ad inglobarsi nel figlio. L’argomento della figura in movimento mi ha sempre incuriosito. Erano lontani i tempi del Boccioni scultore di Forme uniche nella continuità dello spazio, ma non poi così tanto…
Oggi il risultato appare assai lontano dalle suggestioni che il soggetto evoca: segno dell’inquietudine dell’età e di un’epoca drammatica, che ancora portava addosso le ferite della guerra. Ricordo gli incontri con Carlo Cassola nella sede del PCI di Volterra, quando lo scrittore ci raccontava la sua partecipazione alla lotta partigiana segnata da lutti e violenze. Dopo i fatti di Reggio Emilia, del luglio 1960, realizzai un manifesto di condanna con figure analoghe a questo disegno, esposto nella bacheca del partito di via Giusto Turazza.
Un altro aspetto che caratterizza la mia produzione bidimensionale degli esordi, è la tensione evidente verso la scultura e la tridimensionalità. Non sono mai stato attirato dal colore, dalla stesura piana delle superfici, dalle lusinghe del decorativismo, ma al contrario ho apprezzato i piani spezzati, le angolature divergenti, capaci di creare contrasti chiaroscurali. Come se le superfici fossero scavate da uno scalpello, ho così espresso il mio legame con quelle botteghe volterrane di scultura nelle quali sono cresciuto. Per inciso, è in una di quelle botteghe, la bottega del Giannelli, che alla fine degli anni ’50 ho visto Mirko Basaldella realizzare in alabastro un grande totem, alto sui tre metri.
Per esempio, conobbi attraverso Mino i disegni di Moore nella metropolitana di Londra, divenuta rifugio anti-aereo durante la guerra.
Volterra: le Balze. Sollecitati dagli insegnanti, io e Anci prendemmo l’abitudine di andare in giro nella campagna volterrana a disegnare dal vero quello che più ci stimolava. Mi rimane questo pastello a olio delle balze, segnato da una forte e marcata linea di contorno che ha il sopravvento sul colore, e indica quanto sia sempre stata presente nella mia opera l’impronta della tridimensionalità, che non mi ha mai abbandonato. Certo, anche qui manca la visione distesa e consolatoria del bel vivere in campagna, tanto più che il luogo è tristemente famoso tra i volterrani perché testimone di molti suicidi.
La campagna volterrana del Savelli, sfondo dell’affresco all’Istituto d’Arte in Aula Magna (1940), al contrario risulta positiva, energica e lavoratrice: segno di tempi nei quali la retorica politica inneggiava proprio a questi valori.
L’ulivo, soggetto di questo disegno, è ancora oggi una pianta a me particolarmente cara. La interpreto come una figura umana: con le sue articolazione, le sue incurvature, un fusto complesso che si incunea nei rami fino a integrarsi con essi; una vera e propria scultura naturale che vive nei riflessi variabili e volubili di forme dinamiche, contorte: in una parola, antropomorfe. Certi ulivi secolari mi fanno venire in mente
il primo Mondrian, la scultura di Moore…
Due figure sulla panchina di San Francesco. Insieme alla campagna, mi rivolsi anche alla narrazione della vita di città, con i suoi riti e i suoi personaggi abituali. Noi ragazzi passavamo i pomeriggi estivi sotto i tigli, a parlare sulle panchine: di arte, di pittura, di futuro. E gli anziani di lato, che trascorrevano lentamente le loro giornate.
Figura sullo scooter. Vacanze romane di provincia…
Figura con fisarmonica. Non era inconsueto vedere musicisti di strada che, con i loro strumenti, allietavano con la musica le nostre giornate, in cambio di poche lire.
Coppia di innamorati sulla panchina. Tra i frequentatori più assidui delle panchine non mancavano gli innamorati, che completano la mia narrazione adolescenziale della vita di provincia.
Ritratto allo specchio 1. Ancora un capitolo da esplorare: la mia immagine. Dopo aver affrontato la vita del paese e la sua campagna, mi rivolsi alla definizione di me stesso. Allo specchio ciascuno di noi ha la possibilità di incontrarsi in una profondità che implica anche la dimensione interiore, la psicologia. Feci vedere questi miei disegni a Mino, che mi spinse entusiasta a leggere Oscar Wilde e il ritratto di Dorian Gray: confesso di aver comprato il libro, ma di non averne mai completata la lettura…
Ritratto allo specchio 2
Figura seduta. In questo dipinto recupero la narrazione materica del colore, steso velocemente e con tinte fredde (grigi, gialli, celeste…). Purtroppo mi rimane solo questa fotografia in bianco e nero. Ricordo che le dimensioni erano ragguardevoli (120×60).
La Fortezza, dall’ultimo piano del museo dove lavoravo in un salone stracolmo di reperti archeologici, si vede così: sembra di toccarla.
La Fortezza 1. Ancora una volta, quello che vedevo si trasformava in un corpo vivo. La città per me ha sembianze antropomorfe: l’uomo, col suo corpo e i suoi movimenti, riproduce se stesso nelle sue opere, nelle complessità architettoniche e urbane che qui prendono vita con segni violenti, rapidi, scultorei.
La Fortezza 2.
No Comments

Post A Comment