19 Gen Mino Trafeli e il design come provocazione (ottobre 2019)
Guardare l’arte negli oggetti e gli oggetti nell’arte è il sottotitolo dell’intervento che ho presentato a Volterra il 19 ottobre 2019 nella giornata dedicata al mio maestro Mino Trafeli. Lui artista, io designer: due mondi, l’arte e il design, apparentemente distinti ma non poi così distanti, almeno nella mia esperienza.
Ricordo di Mino un soffitto luminoso da lui realizzato per la mostra-concorso dell’alabastro alla fine degli anni ’50, esposto nei locali della scuola elementare di S. Lino. Quel soffitto era costituito da una struttura metallica reticolare, a maglie triangolari e pannelli in alabastro, il cui effetto tridimensionale era del tutto analogo ad una cupola geodetica come oggi si può vedere nella copertura della Fiera di Rho a Milano, di Massimiliano Fuksas. In questo caso l’artista Trafeli si è vestito con gli abiti del design: ha considerato la funzionalità, i materiali, la modularità, le possibili aperture commerciali di un vero progetto industriale.
Riprendendo il tema caro alle provocazioni dadaiste culminate nel Cadeau di Man Ray, ora che la scarpa entrava nel circuito internazionale dell’alta moda come simbolo di lusso ostentato fino all’esasperazione (penso alla scarpa cult di Ferragamo, la celebre Zeppa) Mino la riduceva a oggetto inutile, impossibile da calzare, giocato sul ‘negativo’ che ne impedisce la funzionalità, vera sua ragion d’essere.
C’è poi il tema fortunato della ‘Vespa impossibile’. Con esso Mino è entrato con ironia e leggerezza nel tempio del più grande costruttore europeo di scooter, la Piaggio, ottenendo riconoscimenti senz’altro gratificanti. E’ ora la volta del veicolo a due ruote reso epico da una pubblicistica all’avanguardia (“Chi Vespa mangia le mele” valga per tutti), che si allunga così tanto da impedirne la guida. E’ chiaro che il percorso artistico compiuto da Mino non prende in considerazione la funzionalità dell’oggetto in se, ma si riduce ad un puro gesto estetico, che lo si voglia o meno.
Quell’estetica che è tanto presente nell’immaginario italiano legato a macchine e motori, che D’Annunzio aveva prefigurato imponendo il genere femminile al termine che designa l’automobile futurista di inizio secolo. La Vespa, la Lambretta, l’automobile…
Che dire della sedia Cesca che simboleggia il tempio del design, il Bauhaus degli anni eroici di Dessau e di Breuer, che Mino ha ridotto a larva, scheletro, che ha manomesso con risoluta determinazione fino a farne un ectoplasma, una non-vita che pure da essa scaturisce?
La sedia è la sintesi più rappresentativa del fare design: Mino l’ha qui disintegrata in modo sfacciato e iconoclasta.
Chiudo tornando all’arte. La serie delle ‘Radici’ mi è particolarmente cara, non solo perché ho assistito in prima persona alla sua nascita tra la fine degli anni ’50 e gli inizi del decennio successivo. Qui c’è il tema quasi profetico del recupero degli oggetti di scarto: vecchi tubi di ferro, tronchi di legno, particolari metallici non più usati. Anziché finire in discarica, Mino raccoglie questi resti, li recupera, li illumina di nuova luce e ne ricava lastre artistiche, formelle animate da una vitalità primigenia sulle quali la sua manualità plastica, da vero etrusco rinato, si esalta ed esalta. Ammiro queste opere, che mi ricordano la drammatica esperienza pittorica di un Pollock intento a sgocciolare barattoli di colore per strappare il limite bidimensionale alla tela. Non è estraneo ad entrambi l’esperienza appena passata della seconda guerra mondiale, che ha lasciato un’Europa e un occidente lacerato alla ricerca di un nuovo domani.
No Comments